giovedì 7 maggio 2009

RE-SPIRO

Ha inizio la storia.
Ma con quale inizio? Con quale incipit? Dato che le storie non hanno mai un incipit, un luogo del tempo ben definito e dal quale il tutto esiste, il mezzo e sua la fine… è semmai un segmento, un tratto rettilineo e contorto d’avvenimenti e pensieri e azioni mancate o perfino protuberanti.
Si può indicare, senza avere ombra di dubbio, se c’è un unico punto attorno al quale un mondo si svolge o ruota un suo possibile esistere? Ma quell’esistere… non è, forse, parte di altre esistenze, di altri universi? Un’escrescenza di infiniti altri sistemi, e questi a loro volta sono parte di esso, ed esso ne rigenera e muore e vive in altri, e già viveva, e morirà nell’infinito da cui proviene, e in lui ne vivono altri, mentre egli ancora non muore: bolle che l’attraversano, l’ostacolano, lo sospingono... spesso al centro che l’assorbe in infiniti altri possibili mondi, oppure ai margini del nulla o dove mai e sempre qualcosa o qualcuno, un lettore, un messaggero di sogni, un filo d’erba o il vuoto stesso lo ingloba.
È una storia, e tanto basta. E allorché essa non fosse, sarebbe come mentire spudoratamente se si affermasse che essa non è.
È un atomo di pensiero, sospeso sulle strade, che chiama, sfiora o viaggia col vento fino al vuoto siderale. È la storia di due sconosciuti che chiedono un caffè al bar e non sanno di chi prima di loro, né sanno dell’altro, del domani; è la scritta sui muri, sulle porte dei bagni degli autogril, è le sigarette spente e calpestate, le giacche appese e indossate, le scarpe, i volti, gli umori, l’odore del petrolio, del gas, delle piante, la luce del sole, delle lanterne, del neon, il colore, dei libri, della pelle, dei tavoli, delle strade, del cane, il suo abbaiare, le note del clacson, di Schumann, di Mahler, del jazz, dei cingoli, dei mitra, dei lamenti, è lo spessore dei paesaggi, il peso della pietra, il ricordo dell’ansia, delle notti, delle parole non dette, dei luoghi deserti.
La storia è un quadro, o meglio il ritratto d’un ragazzo di vent’anni che se ne sta seduto su un albero abbattuto e indossa un mantello. Vive al tramonto. È un cavaliere, con lo sguardo un po’ assente. Il triste ragazzo è chiuso, come un guscio di cozza, tentando con tutta la sua sbigottita paura di stringere il proprio essere nel ricordo dell’unica notte d’amore. Tristano, infelice, se ne va, non sa dove, per antichi sentieri consumando i suoi calzari sul fango, lungo un tramonto eterno. Verso di lui si muove – ricorda – il sorriso della bella Ysalt. La promessa sposa del re Marco, cos’altro poté dire se non: «Tristano, più nulla avrete da me, se non il mio cuore»? Tristano, dalla sguardo già triste, e il povero re (sciocco, ingenuo stolto infamato) che giacque con la serva truccata da moglie. Orribile inganno! Inganno, partorito dall’inganno!
Questa storia ancora mi riecheggia nella mente, tale che lo strazio per il dolore mi appartiene ormai, è il mio carico, il mio giogo, che traino impassibile delle altrui risate.
«Ben ti sta!» esclamo all’istante, mentre lui se ne resta a fissarmi con bronzei occhi carichi di gelido piacere. Quell’individuo dev’essere un generale o un importante colonnello dell’Armata Imperiale. «Ben ti sta», replico. «Cosa?» chiede lui. «Parlo di te, povero idiota! – gli rispondo, indicandolo nel suo monumento – Guarda che servizio ti fanno i piccioni». Il cranio calvo, color bronzo ossidato, è ricoperto di macchie grigiastre di varie dimensioni. Quel monumento ha afferrato la sua gloria di pietra, nell’indifferenza del vento che sul muso gli sbatte le foglie strappate dai rami, dalla polvere delle vie; il cielo stesso lo percuote pisciandogli addosso una pioggia di sabbia e mercurio liofilizzato. Ai suoi piedi il tappeto terreno sa di umido e i piedi dei bimbi battono un ritmo attorno a lui, quasi fosse un totem, un palo al quale legare le sacre vittime della guerra. I bambini sono pazzi nei romanzi di Baurrough, nelle vie di Brescia, nelle metropoli e nelle campagne, sono pazzi giù un Africa dove sparano ai nonni, squartano le tende dei padri. Sono pazzi quelli costretti a picchiare le donne con l’ascia, quelli tenuti sotto una coltre di odio con lo stomaco vuoto, quelli che cadono dalle torri della città, quelli che osservano e piangono i propri morti. Il mondo è pazzo negli occhi del Generale Imperiale, assetato di oro nero, delle viscere della terra, assiso sul suo trono di marmo, mentre la pioggia, gli anni, la dimenticanza, l’oblio, l’inferno stesso lo fagocita.
D’un tratto tutto mi appare chiaro. Nel perpetuo ciclo delle ripetizioni si rappresentano antiche e nuove commedie, scenari grotteschi e reali, lo scorrere dei fiumi, il danzare delle nuvole, lo spegnersi dei tempi, i mulini a vento e le coscienze elettroniche, le ingenue consapevolezze e gli omicidi premeditati. Tutti i miei racconti muoiono nella mia piccola patria, sono morti non evoluti, ridotti al nulla che li ha generati; le onde del mare vi passano sopra, fanno schiume di bavose dissonanze miscelando realtà, immaginazione e tutti i miei animi che esseri estranei giudicheranno sempre stupidi. Amore, odio. Le mie due facce, il me stesso che scompare in un gioco di vita solitario. E come in un solitario, le regole possono essere mutate, si può persino barare fino alla fine, fino all’ultimo respiro. E quando m’ingloberanno da qualche parte, allora sarà silenzio, le mie parole saranno immagini di parole vuote e pensieri e sogni sognati in pomeriggi assopiti e senza interlocutori. Quando tutto tace, libera sensazione d’isolamento mi attende e, già ora, mi precede, in quest’ennesimo scritto.
Merigot, Republique Française, è l’intestazione della cartolina che ora ho tra le mani, mentre sto qui seduto a scrivere, col timbro postale di “Paris – 20 août 1996” e, in fondo a destra, l’indirizzo “20 rues de G. 94370 Suey-en-B., France” e, al centro, il saluto con la firma “See you soon, Laurent”. La cartolina riproduce il volto d’una verde isoletta dove spiccano otto alberi sul mare turchese. Sandy Island, qualcosa come un nulla sull’oceano, ma già più antico ed esteso delle braccia di un uomo. Indossai dunque il visore e tracciai la rotta per Sandy Island. Giunsi ad un tunnel ed io a seguirne il volo in “One of these day”, controvento, simile ad una palla meccanica. Di seguito l’atterraggio della sfera, accompagnata da una “pillola di vento”; «discesa morbida» lampeggia sul display. Osservo l’orologio. Attendo di vedere il momento in cui nacqui, cioè quando il tempo prenderà a scorrere ritroso.
«Che stai facendo?», meccanicamente mi volto e non la vedo, ma odo ugualmente la sua voce e la vedo ondeggiare in cerchi concentrici su di una parete d’acqua. Non rispondo e le tendo la mano coperta da un guanto mentre con l’altra afferro la window ed arresto il sistema.
«Ho preparato del caffè – mi dice – ne vuoi?».
Poggio il visore sul tavolo: «Si, grazie».
«Che stavi facendo?», torna a chiedermi.
Sorseggio il caffè, «non so, non saprei dirlo» rispondo pensando che non sempre è amore inventato quelle delle donne; cercavo di convincermene, ma mi era difficile. Finisco di bere e do l’ultima occhiata all’orologio. «E ora che io vada» ed evito il suo sguardo. Indosso la giacca ed esco.
Verso l’ora di punta (il pulman parte da Lancing diretto a Brightown), più o meno di fronte la casa della signora Florence c’era un albero con rabeschi intrecci di foglie rossicce, daliane, foglie fluide di gas che riportano alla normalità tutto il presente. L’autobus arriva, si ferma, salgo, riparte, mentre penso che all’alba giù sulla riviera c’era il mio fantasma che ancora passeggia inquieto nel mio cervello. Poi prendo dei fogli che ho in tasca, schizzo, scarto, eseguo evoluzioni nevrotiche sull’albero immerso nel mio soul. Quindi scatto delle foto dal finestrino. Le case si diluiscono con facile trasparenza.
Ho deciso, almeno per un po’ di tempo, che non entrerò più in rete. A dire il vero non l’ho deciso io, è solo che non ne ho più voglia. Per questa ragione, appena rientro nell’appartamento che divido con un altro studente, mi butto in poltrona, prendo il mio note-book gocciolante stille d’inchiostro scuro, tratti caotici di penna blu, e chiedo a Iury di leggere le mie poesie. Lo guardo. Vedo che osserva con molta fatica, ed occhi persi.
«Non lo capisco!», l’affermazione mi giunge immediata, mi trapassa di netto il cervello per infrangersi su molli barriere d’ambiguità. «È l’Arte – sentenzio –. Arte, rettile, umanamente serpente, essa striscia ovunque, si carica di nobile plebe, di false verità, di realtà fantastiche, di sensi platonici e di viziose virtù. È materia animata, così ossimorica in sé, così umana nella perfetta imperfezione delle apparenze, essere virtuale e composto chimico della mente. È l’Arte, eppure, moderna concezione del ciclo vitale». Iury sorride: «Forse capisco». Forse – penso – è solo uno dei tanti sogni possibili.
Non c’è l’ho fatta a resistere a lungo. Sono passate appena due ore, ed eccomi nuovamente in rete. Decido di controllare la mia casella postale. C’è un messaggio da parte di un vecchio amico. Mi comunica diverse notizie, mi parla del suo nuovo lavoro e della necessità che ha di modificare i suoi arti meccanici al suo nuovo destino. Mi riferisce di aver saputo che c’è un tale che gira per i corridoi intenzionato ad acquistare l’intera catena alberghiera dei pianeti dell’universo. Tutti gli alberghieri, se così sarà, verranno sostituiti da potenti microprocessori. Temo per il mio amico. Non troverà più lavoro.
«Queste mie dita arano l’assurdo!» grida una voce dietro il muscolo del mio cuore. Mi volto, lo osservo, si muove nell’ombra dello specchio, la voce, scivola lungo i bordi del lavabo. Lì si perde. Di lui non saprò mai più nulla. Finisco di leggere la posta, quindi sento urgente bisogno di uscire a fare due passi, prendere aria, trasferirmi altrove magari in un'altra città, in un altro mondo, in un altro sogno, in qualcun altro.
Io sono un atomo, un atomo di pensiero cosciente e vago all’imbrunire, sospeso nell’aria gelida di questa giornata ed aspetto che qualcuno m’incontri, per sapere tutto di lui, delle sue cupidigie, delle sue ore passate a ridere con gli amici e a piangere solo nel bagno o sul letto. Un tempo, potrei giurarlo, mi staccai da una vecchia foto di giornale: fu un colpo di tosse secca del lettore, mi sbalzò sul collo di una donna e presto le scivolai in grembo. Passarono infiniti anni ed ella morì, fummo sepolti assieme e tutto quello che accadeva nel mondo lo seppi solo quando ella risuscitò. Attraverso la linfa giunsi allo stelo di una calla ed osservai finalmente di nuovo il cielo (dove ero stato infinite volte, da dove non sono mai mancato). Era senz’altro un giorno d’estate di un qualche anno. Fui colto assieme al fiore sul quale giacevo e condotto con esso ad ascoltare le parole di alcuni amici (una 128 quattro porte blu, targata Senza-Destinazione). Viaggiamo da diverse ore, ho quasi il mal d’auto, su questa landa desolata. Attorno ci sono altri pensieri ed atomi che, come me, sgusciano dai sedili, dal paesaggio, impazziti di terrore, come se fossimo presi da una scossa di terremoto, mentre il motore dell’auto batte un ritmo cromato, simile alla scenografia di un film. Come nella musica dei Doors. Ora sono una nota, un urlo e sento l’effetto che produco sull’autista che guida e fuma marijuana. Sono nei suoi occhi, e la strada si proietta dalla sua mente (pensa, crede di guidare!). Sono il suo credere, il suo pensare, il suo ricordare e, come una sillaba appena sussurrata da chi gli sta accanto, mi distraggo e scivolo via, spinto ancora dalla brezza verso un cartello stradale. «Quale direzione prenderemo?». È di nuovo Iury, che mi parla da dietro la spalla osservando il monitor sul quale scorrono i pensieri dei nostri volti. Osservo attentamente il cartello, prima di dare una risposta. A Nord? A Sud? Quale via è la migliore? Quale la più sicura? Il cartello indica una via tranquilla, la via del suono di una sola mano, la via dello Zen, del Nirvana. D’un tratto fuori prende a nevicare, una neve soffice e polverosa delle regioni artiche. Iury aspetta paziente la mia risposta. Io attendo che sia conclusa l’attesa di lui che attende ancora. Non abbiamo via di scampo. Non c’è scelta. È tutto già perfettamente scolpito nel marmo, è tutto già rappresentato. Si tratta soltanto di replicare, di rigirare le medesime scene, senza sosta, senza respiro, ininterrottamente. Lo sentiamo questo respiro, Iury ed io, lo sente l’atomo della coscienza, persino le vene delle mie mani lo percepiscono, alle volte. È un respiro profondo, universale, che attende… attende… attende… è un respiro cosmico che non ha mai termine, un cerchio senza principio inglobato in una sfera inglobata in infinite sfere… e non c’è via di scampo. Non una fine, non un mezzo, né un principio. Dunque «non c’è nessuna direzione da prendere», e Iury lo sa bene; lo so io, come lo sa quell’atomo di una certa parte di quella consapevolezza detta ragione (o detta vergogna?) che si rifiuta di apparire in pubblico e teme di ciò che la gente può dire di lui. Lo sa bene Tristano, lo sa il suo lamento, le mani di Ysalt, il beffato re, il suo giullare, il teschio di Yorick, la fossa in cui giace, la terra negra che lo ricopre, lo sanno le scavatrici che ne estraggono petrolio, lo sanno coloro che muoiono per le infinite cause, l’intero disordine lo sa. Ed attende ai confini della pre-esistenza l’esplosione, il Big Bang.
Ancora.
Ha inizio la storia.

3 commenti:

Fabioletterario ha detto...

E con la storia ha inizio la narrazione, e con la narrazione ha inizio l'uomo...

enne ha detto...

Devo riconoscere, con estrema onestà, che mi sono calata totalmente nel tuo affascinante racconto-non racconto, che ci comprende tutti perchè tutti, in qualche modo, facciamo parte di una stessa trama.
Avevo in mente di scrivere altro, ma quando telefona il mio ex marito ha sempre, sempre lo stramaledetto potere di farmi salire la pressione sanguigna.
Scusa.

impollinaire ha detto...

non riesco a trovare il tempo per leggere con la dovuta attenzione il tuo racconto, perdonami, ritenterò, ciao